domenica 6 ottobre 2013

"Vedi, solo i pidocchi sono importanti perché ti tengono in vita. Non dovresti danneggiarli o tradirli. Sono le vostre madri che portano la morte nei loro intestini, e voi siete le balie delle vostre madri, che nutrite con la morte".




Trzecia czesc nocy di Andrzey Zulawski (1971 - Polonia)

"<<Mia sventura!>> - Così mi chiamerai.
Così, straziati dal coltello del chirurgo, 
i piccoli rinfacciano alla madre:
<<Perché mi hai messo al mondo?>>

E lei, col fresco palmo mitigando
la febbre: <<Perché è giusto. Ora riposa!>>
Sì, ora dell'Anima come del coltello,
bambino, e questa lama è buona".

mercoledì 2 ottobre 2013

lo spring breakers fighetto della Coppola



Bling Ring di Sofia Coppola (USA - 2013)

"papà papà, mi fai fare un altro film, dai e dai??" "Ok Jen, però tu mi prometti che non ti droghi più"




Surveillance di Jennifer Chambers Lynch (USA\Germania\Canada - 2008)

Prendi David Lynch. togli il sottotesto psicanalitico, togli il talento immaginifico e togli la perizia nella direzione degli attori, e avrai... Lynch, la figlia.

martedì 17 settembre 2013

scritto da giulietto della chiesa



The Conspiracy di Cristopher MacBride (Canada - 2012)

moralismi a parte.. il nulla.



Jagten di Thomas Vinterberg (Danimarca - 2012)

Il solito Vinterberg, provocatorio e moralista nel suo voler uccidere la morale; ma la morale non si uccide così, mostrandone le iperbole e i suoi estremi. La morale trova nelle cause la sua debolezza, non negli effetti di cui tutti siamo, in un modo o nell'altro, prigionieri. Il cinema di Vinterberg è tanto ben fatto quanto inutile.

una nuova strada per perdersi



Shi yue wei cheng di Teddy Chan (Hong Kong - 2009)

Non conoscevo il regista Teddy Chan, ma dopo questo film la voglia di approfondirne l'opera non manca, e da un'occhiata veloce ai suoi film pare ne valga la pena. Quello che impressiona in questo Bodyguards and Assassins, è l'assoluta volontà di omaggiare un cinema classico in un progetto che avrebbe avuto l'opportunità di essere il solito Gongfupian dall'estetica pirotecnica e dai contenuti semplicistici. Chan prende un'altra strada invece. Sa che non può competere a livello di film di genere con quello che il genio di Panna Rittikrai e la professionalità di Prachya Pinkaew hanno dato al Gongfupian, perché Hong Kong è diventata una piccola Hollywood e in quanto tale non investe più sugli stunts, ma tutto è deciso dalle major locali: post produzione ed effetti speciali invece di corpi; ovvero l'oggetto per cui il cinema è nato. Il bello e commuovente film di Chan fa un inchino a quello che hanno saputo fare in Thailandia quei pazzoidi geni della Sahamongkol Film International nel Gongfupian degli ultimi dieci anni, lezione che trova nuove e innovative sinergie con il lavoro che sta facendo Gareth Evans in indonesia con l'eccezionale "Serbuan maut".  
Bodyguards and Assassins rinuncia a tutto questo, rinuncia ai corpi in quanto tali e prova a narrare e raccontare, come farebbe un rapsode, di eroi e di epica che incontra l'etica, la virtù, non meno di una novella Iliade. Il film è un film di non-corpi, di personaggi, e la scelta di Chan è di non tornare al cinema delle origini come hanno fatto i thailandesi ma, riconoscendone la lunga e tortuosa strada, preferisce rifarsi ai classici. C'è più John Ford e Akira Kurosawa in questo film che in tutto il cinema di un regista considerato classico come il grande Clint Eastwood... 

manca la merda



I Spit on Your Grave 2 di Steven R. Monroe (USA - 2013)

La geniale idea degli sceneggiatori ( già firmatari di robe del livello del soggetto di Saw IV -!!!- e Troglodyte -!!!!!!!!) è di iniettare il rape & revenge dell'originale con il porn-torture alla Hostel.
Il regista Steven R. Monroe (regista anche del primo remake), ci va a nozze e non si preclude nulla, tra le solite evirazioni (già nell'originale), torture, pissing e qualche bella trovata ( il nerd crocefisso e lasciato morire dall'infezione che lo sta deformando). Il fatto che un film che abbia la sua unica ragion d'essere nel dovere e volere alzare l'asticella del mostrabile nel cinema horror, mi fa pensare all'unico elemento che è mancato in questa allegra festa della merda, che non è altro se non la merda stessa, che sembra ancora essere uno dei pochi tabù del cinema americano. Con buona pace di un precursore come John Waters. Essì che le occasioni non sarebbero mancate, come nella pur disgustosa
 scena dell'annegamento nel wc pieno sì di merda, ma rappresentata come una massa informe e marroncina, quindi non-rappresentata sostanzialmente.
In ogni caso, quasi per miracolo, il film di per sé funziona, soprattutto nella seconda parte quando la protagonista entra in una nuova dimensione, muovendosi in un ade dai toni freddi, contraltare dello spirito di quella Katie "calda" vittima della prima parte. In fondo il valore del film sta tutto qui, nella protagonista Jemma Dallender che, oltre essere gnocca, dimostra anche una impeccabile generosità nel fare del suo corpo un vero e proprio sacro altare del disonore, non precludendo praticamente nulla all'abuso dei suoi aguzzini e allo schifato ludibrio degli spettatori. Che sia nata una Scream Queen? 

domenica 8 settembre 2013

C'era una volta Men In Black




R.I.P.D. di Robert Schwentke (USA - 2013)

Dall'omonimo fumetto della Dark Horse Comics il mediocre regista dei sopravvalutati "Red" e "The Time Traveler's Wife" realizza un altrettanto mediocre buddy-movies di genere fantastico scopiazzato da "Men In Black" ma con una cgi peggiore e una coppia di protagonisti, formata da un divertente ma parodistico Jeff Bridges e uno scialbo e statico Ryan Reynolds, che non brilla certo per affiatamento. Gli sceneggiatori Matt Manfredi e Phil Hay sono specializzati in film d'azione di genere fantastico scritti male, e anche in questo caso non si smentiscono, confermando un certo andazzo della Hollywood degli ultimi anni, a cui non interessa nemmeno investire con idee e maestranze di qualità per progetti che comunque il loro incasso lo porteranno a casa, preferendo spendere il budget a disposizione con il nome degli attori da mettere in cartellone e una massiccia campagna di lancio.  

Libertà al crepuscolo




L'ora blu di Stefano Cattini (Italia - 2012)

L'ora blu è un termine dalla doppia valenza, poetica e tecnica, che sta a indicare il tempo del crepuscolo, quando il sole è immerso al di sotto dell'orizzonte. Ritroviamo questa doppia significanza nella storia degli ottantenni Ilario e Irma che vivono con la sola compagnia dei propri animali, immersi nell'arida e fitta natura della maremma grossetana. I due passano giornate scandite dalla lentezza dei propri gesti, una lentezza che si dimostra forza implacabile nella costante ricerca del superamento dei conflitti del loro rapporto, del loro rapporto con la natura, del loro rapporto con gli animali e in quelli con gli altri abitanti della maremma, presenze invisibili ma sensibili assenze, nell'intento di costruire una impossibile yurta su di un albero per Irma, e un inabitato piccolo villaggio nel bosco  per Ilario.
Detta così sembra in tutto e per tutto un film di finzione ma, al di là del fascino suscitato da questi pittoreschi personaggi - l'accondiscendente Ilario, dall'animo poetico, e la brusca e risoluta Irma, innamorata dei cavalli e del cavalcare nella natura - il motivo di interesse  qui sta nell'approccio metodico del regista Stefano Cattini che, dopo aver passato alcuni giorni con i due anziani protagonisti nel loro "villaggio", prendendo molti appunti e facendo qualche ripresa, decide quale deve essere il centro del suo racconto, la forma e il contenuto della sua narrazione, ottenendo così da un girato relativamente breve (dodici ore per un documentario sono sicuramente poche), un film non-fiction, evidenziato anche dal sottotitolo "Un racconto non-fiction sull'amore",  che ha tutto per essere un classico documentario ma che il potere oggettivante della m.d.p.  ci restituisce in forma di soggettiva rappresentazione, tipica dei film di finzione.
E' infatti questo un film d'amore. L'amore dei due protagonisti, spesso intenti a punzecchiarsi ma sempre insieme nel superare la stanchezza e le difficoltà di una vita al crepuscolo, crepuscolo ben  rappresentato dalla fotografia che indugia tra i contrasti che "l'ora blu" crea tra il cielo e la natura maremmana. L'amore per i propri animali, veri e propri compagni di vita. L'amore per le piccole grandi imprese che i due affrontano stanchi ma indefessi. Infine un amore per la natura che non ha niente di romantico - spesso troviamo i due lamentarsi del freddo o degli insetti o dei sentieri impraticabili - ma che per questa coppia di anziani esseri umani rappresenta solo una cosa da voler godere al crepuscolo della propria vita: la libertà.



sabato 7 settembre 2013

e fanno pure il seguito...




The Strangers di Bryan Bertino (USA - 2008)

Questo film conferma una certa tendenza dell'horror americano, fatto da prodotti girati piuttosto bene da giovani filmmakers  tecnicamente preparatissimi quanto grammaticalmente impreparati, che realizzano prodotti la cui visione trasmette quel nulla che il regista (nolente o volente) restituisce allo spettatore. Sono film questi che non hanno un vero genere essendo niente altro che un affastellare di sequenze e situazioni già viste e riviste in altri mille film tra loro eterogenei; ma rigirarli meglio non basta per farne un film. Questo The Strangers ne è l'emblema, ma i produttori, non contenti, stanno preparando pure un sequel: provaci ancora Brentino.

il P.O.V. che non ce la fa più






Grave Encounters 2 di John Poliquin (USA - 2012)

Il film di Poliquin, scritto da quei Vicious Brothers registi del primo episodio, per la prima ora è un'interessante riflessione (che non rinuncia a una certa dose di auto-ironia) sugli archetipi del cinema horror, sul linguaggio stesso del genere che pare aver trovato una nuova espressione proprio in quel P.O.V. inaugurato da Ruggero Deodato  con fini etici/estetici negli anni Ottanta e riscoperto nel furbo The Blair Witch Project (1999). Il problema è che, finita la riflessione, quando si passa alla dimostrazione, ovvero quando il film dovrebbe fare paura e usarne  il linguaggio in questo senso, si cade nella noia, nella reiterazione di situazioni già viste ed esteticamente sterili. Con un finale pacchiano che, in parte, sbugiarda gli spunti interessanti della prima ora. 
Continuità di luogo a parte, più che con il primo episodio, il film sembra aver  punti in comune col bellissimo Noroi (2005) di Koji Shiraishi, in cui la riflessione sulla questa forma espressiva e l'horror era portata alle estreme conseguenze, mostrandone le potenzialità fino in fondo e suscitando la tensione e la paura proprio nel non mostrare. 
Arriverà poi Oren Peli che con i suoi Paranormal Activity (2007), se ne sbatterà di riflettere ma userà questo linguaggio unicamente per creare nello spettatore uno stato emotivo di terrore che aderisca indissolubilmente con i personaggi del film. Un'operazione che può riuscire o meno, ma che non è altro che la riproposizione di quello che fecero Myrick e Sanchez quattordici anni fa.



lunedì 2 settembre 2013

DOCUMENTARE L'IRREALE




"Searching for Sugar Man" di Malick Bendjelloul - U.S.A. 2012


Negli ultimi anni il cinema ha visto una crescente maturazione, proliferazione e distribuzione di uno dei generi meno appetibili per il grande pubblico in sala. Il documentario, paradossalmente, sta fornendo gli spunti più interessanti e informalmente espressivi nel panorama cinematografico contemporaneo, e non a caso persino una mostra del cinema storicamente tradizionale come quella di Venezia presenta quest'anno ben 21 titoli nelle varie sezioni.
L'ultimo Oscar ha premiato come miglior documentario il film meno verosimile e più paradossale che mi ricordi degli ultimi anni.  Malik  Bendjelloul, il regista svedese, omaggia con un approccio formalmente epigonale eppure estremamente soggettivo lo slancio d'amore di due fans sudafricani che fanno di tutto per scoprire la verità sulla vita e la misteriosa morte ("la più assurda del mondo del rock & roll") del cantautore meno conosciuto e più sottovalutato degli anni settanta che, per un gioco di casuali necessità, diventa a posteriori l'eroe e il mito di un'intera generazione in cerca di emancipazione, in un'area come il sud del continente africano, in cui emancipazione significa galera.
La storia di Sixto Rodriguez affascina perché implausibile; la sua musica è realmente potente, potenzialmente immortale; le sue ballate profonde e dolorose incantano per la forza espressiva e la sensibile scorrevolezza. 
Il film documenta prima la sua assenza, raccontata dall'universo che gli gravitò intorno negli anni settanta a Detroit, quando cercò invano di sfondare come rocker, presentando un contorno di personaggi e intrecci talmente improbabili (l'intervista a Clarence Avant - fondatore della celebre Motown Records- è così iperbolica da sembrare recitata; il vecchio attore di Hollywood completamente sfatto e con il parrucchino che scoppia a piangere ascoltando la bellissima "Cold Fact" di Rodriguez) da far sorgere più volte il dubbio di assistere in realtà ad un mockumentary. Quando poi, nella seconda parte, l'alone di mistero viene svelato e i nodi tornano al pettine, il tutto sembra ancora più irreale, assurdo, con la figura di questo dolente e dimenticato Bruce Springsteen ante-litteram, che appare come una sorta di moderno Socrate, incarnazione di un'idea di Storia made in U.S.A.
Al di là della potenza del racconto, e della poetica del personaggio, 
la forza del film sta nel descrivere con un linguaggio rigorosamente documentaristico una storia "vera" presentando un film che ha nella sua ragion d'essere l'evidenza che il documentario non è un documento, ma una rappresentazione come qualsiasi altro lavoro su schermo. Forma e contenuto, così rigorosi eppure sempre ambigui, sembrano dare ragione alla critica di una concezione del segno come relazione di corrispondenza naturale tra significato e significante tanto cara ad un Barthes, arrivando a quella assenza di forma tipica dello stile documentaristico che invece di chiarirne il significato lo disperde.
Il regista svedese con questo film pare volerci ripetere che il documentario non è meno irreale della fiction (non a caso il pragmatismo anglosassone cataloga questo genere più correttamente come nonfiction) perché, una volta che si filtra la realtà con una m.d.p. ciò che conta è solo la verosimiglianza. 
E se un Morin, prendeva l'abbaglio che il Cinéma Vérité ("un cinema di autenticità totale") deve contenere la forza realistica del documentario con il contenuto di una soggettività romanzesca, Bendjelloul, sapendo che il modo migliore di avvertire una presenza numinosa è raccontarla come una assenza, pare dare ragione a Malraux quando scriveva che la forza del cinema non sta tanto nella sua capacità di imitare la realtà, quanto piuttosto quella di "interpretare con estrema potenza il mondo irreale, un mondo che di giorno in giorno sembra sempre più assomigliare alla realtà, ma al quale la realtà non assomiglia affatto".